Ho potuto conoscere la fantasia di Ermanno sin dal momento in cui ci siamo conosciuti e nel corso delle lunghe chiacchierate in casa mia, parlando dello scibile, ma soprattutto del comune amore per Livorno, la Venezia e il vernacolo. Spesso rattristati dalla constatazione del lento, ormai quasi del tutto irreversibile, declino della nostra lingua madre, già del tutto scomparsa nella nostra vita quotidiana, inglobata dal linguaggio della tv e dei grandi strumenti di comunicazione. Livorno, quale realtà avulsa dalla Toscana e, quindi, dall’Italia che abbiamo contribuito ad unificare con la ribellione insita nel nostro impetuoso e generoso carattere, vedi la città che, da sola, si ribellò e dette vita alle gloriose giornate di quel maggio del 1848, sfornando un gran numero di patrioti che si unirono a Mazzini e Garibaldi per “fare” l’Italia, non esiste più. Una conclusione che qualcuno potrà anche contestare, ma che possiamo verificare persino nei tradizionali centri della livornesità quali il Mercato Centrale e la stessa piazza Cavallotti, laddove raramente si sente persino pronunciare il nostro fatidico “boia de!”. Detto ciò, non ho provato meraviglia alcuna nella lettura di questo nuovo romanzo di Ermanno Volterrani che è un’autentica, nostrana sinfonia fantasy. Sì, è questo, a mio parere, il filone nel quale collocare “C’era una volta… il Palio Marinaro”, seppure ogni riga di questa storia sia ampiamente coniugata con quella che fu la “Ricca Città delle Nazioni” e con alcune realtà che hanno creato una valanga di leggende sulla Livorno “sotterranea”, visto che dalla piazza Garibaldi, nella parte retrostante del palazzone dove nel passato si trovava la federazione del Pci, sono personalmente entrato e disceso nel sottosuolo trovandomi ad esplorare spezzoni significativi
della città scomparsa, con case e negozi, compreso un forno del pane che potrebbe funzionare ancora. Un autentico angolo della nostra città sepolto da quando nel 1840, venne realizzato il progetto del Bettarini e il Fosso Reale venne convogliato in un canale lungo 220 metri, coperto poi da una volta che in superficie divenne il “Vortone” dei livornesi, oggi piazza della Repubblica. Nei secoli scorsi questa nostra realtà urbana venne sottoposta a parecchie operazioni di ristrutturazione, tanto che tutti gli appassionati della nostra storia sanno bene come la Fortezza Nuova si estendesse fino ed oltre l’attuale Forte San Pietro, arrivando a quelle mura, ancora oggi esistenti, che racchiudevano i “Macelli” (l’ammazzatoio cittadino). “C’era una volta IL PALIO MARINARO” è un romanzo che apre alla nostra fantasia l’interrogativo su quanto dell’esistente di quei tempi lontani sia, forse, ancora sepolto sotto la città voluta dai Medici, soprattutto la Venezia Nuova. L’ultimo lavoro di Ermanno Volterrani, scrittore, poeta vernacolare, brillante attore, ha una trama davvero avvincente che si snoda puntualmente sugli elementi reali della nostra storia cittadina. Tutto inizia quando due amici fraterni e le loro mogli, legate dalla stessa amicizia, iniziano a porsi domande dopo la scoperta di Vittore, detto Tore, titolare di una piccola, specializzata impresa edile che, mentre effettua il restauro di una cantina affacciata sul Fosso Reale della Venezia, esattamente sugli Scali delle Ancore, scorge un pertugio in fondo all’antico magazzino a pelo d’acqua e scopre una stanza nascosta da una parete alzata successivamente e, stupito quanto mai, vi penetra e tra una polvere fitta come la nebbia nella valle padana, scorge un mobile parecchio malridotto che custodisce un drappo arrotolato dove, tra le sue pieghe malridotte dall’umidità è nascosto uno scrigno di legno sicuramente antico, all’interno del quale, con somma meraviglia di Tore e del protagonista, chiamato dall’amico a proseguire l’esplorazione di quella stanza nascosta, sono custodite alcune lettere che svelano una storia d’amore fra Paolo, un forzato che voga sulle galee del Granducato e che, molto probabilmente ha vinto il primo Palio Marinaro della storia e, udite, udite, la granduchessa Cristina di Lorena, moglie di Ferdinando I, il padre della nostra Livorno. Da questo ritrovamento nasce l’incredibile avventura che farà scoprire ai due amici e alle rispettive mogli, Valeria e Martina, l’inimmaginabile esistenza della Livorno medicea, coperta dalla città moderna. Vicoli, magazzini e depositi, abitazioni e negozi, antiche suppellettili, merci, tutto quanto faceva parte della vita quotidiana dei livornesi nati dalla “Costituzione Livornina” di Ferdinando I. La svolta alla ricerca dei due amici avviene dall’incontro incredibile, con Misia (Artemisia), figlia di una leggenda dei veneziani e della Venezia: la Ciucia, quella Bruna Barbieri, sorella di un’altra leggenda, Attao, misteriosamente scomparsa nel corso
della seconda guerra mondiale, da tutti ritenuta uccisa dai nazifascisti in fuga, ma che invece si era rifugiata nella Livorno sepolta, dove aveva dato alla luce una bambina alla quale aveva imposto il nome di Artemisia, la sua migliore amica ai tempi stupendi del viale Caprera prima del primo bombardamento. Con questo colpo di scena Ermanno fa entrare in scena i protagonisti del mio romanzo “La stirpe di Morgiano” e, infatti, Misia svela ai quattro esploratori archeologi, l’esistenza
di Donato, figlio di quella donna, anch’essa entrata nel mito del quartiere più affascinante della nostra città… continuare a raccontare questa vicenda affascinante, toglierebbe ai lettori la suspense che si crea e ingigantisce nel corso della lettura di un romanzo avvincente, quindi mi fermo qui. Posso soltanto dire che ogni amante della nostra storia, troverà in queste pagine molto delle stupende vicende della nostra Livorno e nuovi, avvincenti elementi sull’ipotesi di quella città “sotterranea”, della quale, comunque, chi scrive, ne ha visitata, come già detto, una porzione realmente esistente, come del resto, in un passato nemmeno tanto lontano, chi percorreva quello che oggi si chiama il “ponte buio”, navigando sul Fosso Reale che attraversa il “Vortone”, poteva ammirare varie insegne di botteghe che qualche solerte, ma citrullo tecnico del Comune, ha fatto ricoprire quando il lungo tratto venne restaurato. Inconcepibile ignoranza sull’importanza di valorizzare un passato che è la nostra vera storia, davvero ricca di grande fascino. Un paio di piccoli rilievi all’amico Ermanno: anche a quasi 84 anni, Donato si precipiterebbe, senza esitazione alcuna, nella Livorno sepolta, come già ha fatto in quel di piazza Garibaldi e non si tinge i baffi, odia ogni “artifizio” teso a cambiare le
fattezze di chi dimentica che la vecchiaia va vissuta da giovani, anche se solo mentalmente.
Otello Chelli
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